Mela marcia

il diario di Natalia Ferrara

Poco meno di un mese fa mi sono chiusa in casa. Le prime due settimane sono andate bene, anzi, che dico, benissimo. Avrò dormito una ventina di ore in tutto, ho pianto un poco tutti i giorni, mi sono affacciata alla finestra per vedere se almeno il cielo ancora aveva il suo volto rassicurante oppure cascante. Decadente come il mio, con le occhiaie al posto delle guance e la pelle trasparente, come quella di un serpente quando la perde lungo la strada delle stagioni.

Dalla terza settimana, invece, un vero disastro. Ho iniziato a dormire un po’ di più, sono pure tornata a sognare, addirittura Morfeo ha messo insieme pezzi di puzzle altrimenti insperati: dalla coppia genitoriale ai giochi dell’infanzia. E ho pianto una volta, una sola, un po’ più a lungo, ma pur sempre una volta sola, per il non compleanno della mia mamma. E poi ho provato piacere fuori in giardino con il sole in faccia e i piedi caldi che neanche negli scalferotti d’inverno. E poi? E poi ho inorridito di fronte a questo miglioramento solo apparente.

Mi è tornata alla mente una lezione di filosofia al liceo, quando Zambelloni ci persuase che l’essere umano, bontà sua, così umano non è, poiché, appunto, in grado di abituarsi a tutto, anche al disumano. Ci ho pensato a lungo, le parole del professore – e non c’entra la casa di carta – mi han tolto di nuovo il sonno, e mi sono riappacificata solo quando mi sono convinta – sempre fra me e me, in una partita a scacchi senza pedine ma con paturnie in abbondanza – che viviamo, è vero, una condizione disumana, ma non umani non siamo. Non la maggior parte di noi almeno. Perché “prima i nostri” mica lo applicheremo ai pazienti, giusto? Perché non divideremo la società in “prima i giovani” o ancora “prima le coppie senza bambini”. Vero?

Matteo, dopo diverse notti passate a preparare teiere di tisane, l’altra mattina si è arreso e mi ha detto “parliamone”. E così, di buona lena, in cucina, dove si parla meglio ma solo se non si cucina, mi sono messa a raccontare a mio marito delle mie settimane buone, che mi erano sembrate cattive eppure, a ben guardare, male non erano, dato che male non stiamo. Gli ho rovesciato addosso l’umanità, la distanza, la necessità di proteggerci. E poi ancora l’isolamento che non è (più) sinonimo di egoismo. E Zambelloni, il liceo, gli esseri umani. Dopo una decina di minuti di soliloquio, ho chiesto conto a Matteo del suo silenzio. Una smorfia al labbro superiore, la faccia corrucciata e poco più di un sibilo fra i denti stretti.

  • Ho mangiato una mela marcia.
  • Scusa?! Come sarebbe che hai mangiato una mela marcia?
  • Sì, è così – aggiunge sempre più disgustato – ho mangiato una mela marcia. Sai le mele al forno, quelle buone, ecco, non erano più buone. Ne ho mangiata una con dentro la muffa, non l’aroma di vaniglia.
  • Amo scusa ma cosa c’entra il fatto che hai mangiato una mela marcia con quanto ti stavo raccontando?
  • Tu mi hai chiesto perché stavo zitto, non cosa pensavo di quanto avevi detto. E io, appunto, tacevo perché quasi mi veniva da vomitare, pensando alla mela marcia, che pensavo fosse buona, invece non lo era, ma alla fine non era poi così male, dato che male non sono stato.